Al lettore che reclamava maggiore attenzione e pretendeva ascolto (“il lettore ha sempre ragione”), Dante Panzeri rispondeva che
El Gráfico non è un negozio: tra il cliente e la verità continuiamo a scegliere la verità, sicuri che sia la miglior maniera di difendere il lettore.
Questa autorevolezza aveva il periodico che forse al mondo ha maggiormente inciso nello sviluppo del calcio. Detta tutta: gli argentini sono i più bravi a raccontare il fútbol, e questo è probabilmente merito di questo giornale nato negli anni Venti e che ha chiuso le pubblicazioni a metà gennaio. Soprattutto a partire dagli anni Quaranta, è chiaro che il vero, nuovo polmone del gioco non è più, posto che lo sia stato in passato, l’Inghilterra (dove il calcio è invece certamente stato creato e normativizzato).
C’è un modo differente di proporre il calcio, un’idea che porterà con sé Alfredo Di Stéfano al Real Madrid, che vincerà le prime cinque Coppe dei Campioni della storia, segnandola per sempre la storia. La Nuestra, la chiamavano, il nostro modo. Ed El Gráfico è stato certamente uno dei suoi migliori veicoli, e certamente il suo maggiore sponsor.
Per una serie di circostanze, ingarbugli creati dalle maggiori teste pensanti che il mondo abbia mai messo su questa terra, gli uruguayani, l’Argentina aveva sì vinto ma solo nel Subcontinente. Negli anni Cinquanta, si incontra una generazione diversa a cui si vaticina uno straordinario successo. Nella Copa América 1957 l’Albiceleste non è che vinca solo: domina, annulla, distrugge ogni avversario. 4 gol ai campioni in carica dell’Uruguay, 3 al Brasile, 8 alla Colombia, 6 al Cile. Non sono partite ma esibizioni di onnipotenza.
La squadra gestita da Stabile è piena di grandi giocatori e davanti ha una “delantera” che è l’unica, forse, a poter rimanere sulla stessa pagina se non alla stessa riga di quella del grande River Plate de “La Máquina” guidata da Adolfo Pedernera.
La formano fenomeni come Omar Sivori (miglior giocatore del torneo), Angelillo, Maschio, el Loco Corbatta. I primi tre arriveranno prontamente in Italia e, mercé l’intervento di un aulico massaggiatore dell’Albiceleste, che li vide particolarmente sporchi dopo un allenamento, regalerà loro un epiteto storico e affascinante: gli “Angeli dalla faccia sporca”, che cambieranno la storia del calcio argentino. Essì, perché una squadra del genere avrebbe certamente impressionato ai successivi mondiali del 1958, giocandosela da favorita contro il Brasile e la Francia forse migliori di sempre. Invece in Svezia arriva una squadra depotenziata, che va incontro alla più vergognosa sconfitta della storia dell’Albiceleste: El Desastre de Suecia. D maiuscola.
Non è solo una sconfitta di una squadra, di un Paese che tornava a giocare il Mondiale e si aspettava di dominare. Era la fine di un’epoca, era la fine del monopolio de La Nuestra, che iniziava ad essere affiancata a un altro modo di interpretare calcio, che poi sarebbe stato etichettato, con un’eccezione fin troppo negativa, resultadista. Non solo e non tanto esibizione di bellezza: vogliamo vincere. Detta così fa un po’ troppo film. In realtà fu un’evoluzione naturale di un percorso di calcio che finalmente, a contatto col mondo vero del fútbol (a causa di un autoboicottaggio l’Argentina aveva smesso di partecipare al Mondiale dal 1938), aveva prodotto idee nuove. Il Calcio era entrato nella modernità, una terra di calcio come l’Argentina aveva iniziato a differenziare le proprie proposte, anche perché il Paese era entrato nella crisi del post-peronismo (anche a causa di Perón) e in qualche modo mutava o meglio definiva la sua identità.
Cambiava il Paese, cambiava il “fútbol”. E perdeva interpreti fondamentali.
Due appariranno proprio sulla storica pagina de El Gráfico (coronando uno dei tre sogni di un ragazzo argentino, secondo la nota definizione di Di Stéfano). Insieme, uno con la maglia della Juve, Sivori, l’altro con la maglia dell’Inter e la fascia di capitano al braccio, Angelillo. La Serie A si arricchisce anche di Humberto Maschio, capocannoniere in quella Copa América del 1957, che vestirà la maglia del Bologna.
Antonio Valentín Angelillo veniva descritto così da Gianni Brera:
Giocava in difesa, a centrocampo e in attacco. Segnava e costruiva gioco, a pochissimi al mondo ho mai visto trattare la “pelota” come lui.
Una nuova versione di Alfredo Di Stéfano, insomma. Non è solo un saluto all’Argentina, è proprio un addio. Non rientra per svolgere il servizio militare, lui come tutti i campioni porteños, e gli verrà per sempre vietata l’Albiceleste. Figlio di un macellaio lucano, Angelillo accoglie volentieri la chiamata della sua seconda patria. Ma non sarà un’operazione felice, né per lui, né per l’Italia, che con gli oriundi, specie in quel periodo, non ha un rapporto semplice. E Antonio lo capisce subito, dai primi allenamenti all’Inter, quando Benito Lorenzi, testa matta se mai ne avete vista una e ormai al crepuscolo della carriera, non solo evita di fargli arrivare il pallone ma lo prende letteralmente in giro.
Il campo però non inganna, disvela. E del talento purissimo di Angelillo si innamorano tutti.
Un talento che tutti notano subito superiore. Ecco perché non ha difficoltà a convivere con ogni compagno d’attacco disponibile, anzi: come avviene sempre per i grandi, illuminando prendevano luce tutti quelli attorno a lui. Nell’Inter giocava con il piuttosto statico Eddie Firmani, alla Roma sarà al fianco del piccolo Piedone Manfredini. Adattarsi, l’ultimo dei problemi, e quando si trattava di mettersi in proprio davanti alla porta era gol. Logico diventi immediatamente l’idolo di San Siro, seppure in una stagione, la prima, non piena di segnature si fermerà a diciassette reti. Vederlo anche ora, in vecchi filmati, palesa una allure differente.
All’Inter, senza troppo girarci attorno, tutti rivedevano il campionissimo Giuseppe Meazza, tanto che in breve anche la fascia di capitano diventa sua. La squadra, tuttavia, non è alla sua altezza, specie dietro, dove i nerazzurri subiscono una caterva di reti. La stagione 1957/58 è probabilmente la peggiore per la Milano calcistica: in classifica Inter e Milan sono appaiate a 32 punti, none, con la Juventus che si guadagna la prima stella sul petto, a distanza siderale, anche grazie ai 26 gol di John Charles.
La stagione successiva è quella della definitiva esplosione per Angelillo. La panchina passa dall’inglese Jesse Carver a Giuseppe Bigogno. La strategia pare però la stessa: palla ad Angelillo e fai tu.
Preso alla lettera: 33 gol e prestazioni monstre che si appannano solo nel finale, quando sembra che il record, anche allora celebratissimo, pareva non arrivare.
L’attaccante argentino parte forte e ha picchi clamorosi (5 gol alla Spal, e chi l’ha mai vista una roba del genere?), poi si blocca e riesce ad arrivare al fatidico gol numero 33 solo all’ultima giornata con la Lazio, contro cui realizza una doppietta. Saranno venti i gol di Firmani, appena giunto dalla Samp: uno decisivo nel derby. Non avesse i soliti problemi dietro, l’Inter competerebbe per il titolo poi vinto dal Milan dell’accoppiata “Cina” Bonizzoni-Gipo Viani. Ad Angelillo “mangiano” anche un gol: avanti 2-0 a San Siro contro la Juve, la gara viene interrotta dall’arbitro Lo Bello causa scarsa visibilità: Boniperti e compagni avranno la meglio nella partita di recupero, ma in quella occasione l’argentino non segnerà come nella partita annullata. All’Inter manca quella guida forte e credibile che il Milan ha trovato in Gipo Viani, peraltro ex giocatore nonché tifoso nerazzurro in gioventù, uno dei più grandi geni del nostro calcio. Angelo Moratti, dopo un’altra stagione mediocre con la panchina che passa da Campatelli ad Achilli, la cerca in Spagna, e prende forma nel tecnico che costruirà il mito della Grande Inter, Helenio Herrera.
L’accoppiata HH-Angelillo che avrebbe dovuto rilanciare l’Inter si rivela presto ingestibile. Herrera, che buca la prima stagione (-17 punti dalla Juventus campione), ha necessità anche di un capro espiatorio: lo trova, oltre che in Angelillo, pure nella ballerina di night di cui l’attaccante si innamora. Secondo HH, Ilya López, al secolo Attilia Tironi, demolisce il fisico e la mente del suo numero 9: per lui è irrecuperabile, e lo inserisce nella lista dei cedibili. Moratti si arrende davanti al diktat del suo allenatore, e lo segue pure nella pretesa di portare in nerazzurro, al posto di quello che ritiene un giocatore finito, tale Egidio Morbello, uno che, con tutto il rispetto, ad Angelillo non può legare nemmeno i lacci delle scarpe.
Angelillo va a Roma, e dimostra di essere ancora un grandissimo.
Le sue letture di gioco rimangono sopraffine, anche lontano dalla porta, per lasciare posto a Manfredini, il cui raggio d’azione è assai limitato ma che davanti al portiere sbaglia poco. La squadra è di quelle che lascerà il segno nella Capitale vincendo la prima Coppa Italia e la Coppa delle Fiere, l’unico trofeo internazionale della squadra giallorossa, con l’ex tecnico del Real Madrid Luis Carniglia in panchina. Una squadra davvero “Magica”. In quegli anni passano dalla Roma l’eroe del Maracanazo Alcides Ghiggia, Francisco Lojacono (giocatore che più che tirare esplodeva missili terra-aria e fuori dal campo impalma Claudia Mori pre Celentano), Raggio di Luna Arne Selmosson e uno dei difensori più forti della storia del calcio italiano, il cremonese, poi Core de Roma, Giacomo Losi. Con quella maglia illuminava, anche se era a fine carriera e in un ruolo non suo, quello di centrale difensivo, pure Pepe Schiaffino, el fútbol, semplicemente.
Il 31 dicembre 1961, in uno dei suoi stadi, San Siro (perché se uno è un grande, appartiene ai grandi impianti), regala una partita stratosferica, una specie di regalo d’addio al calcio: con lanci di quaranta metri direttamente sui propri attaccanti, la Roma è corsara, vincendo 1-0 con rete di Manfredini nel finale. La partita evidentemente emoziona, se il radiocronista del match interrompe per la prima volta un collega per relazionare dell’avvenuta segnatura di Piedone (la sera prima in visita da Renato Rascel). Quel radiocronista si chiamava Enrico Ameri.
Angelillo gioca stagioni memorabili, libero per il campo ad inventare: chi può recuperi almeno spezzoni di quelle partite.
Dimostra a tutti, almeno a quelli che vogliono vedere e il calcio lo sanno osservare prima di giudicare, tutta la sua grandezza. Lascia sul campo ogni energia, da vero e puro amante del gioco. Gli ultimi veri respiri calcistici li regala a un altro eletto del gioco, Nils Liedholm e al Milan allenato dallo svedese, ma sono scampoli quasi invisibili. Altro che Attilia Tironi (che gli rimarrà per anni accanto), altro che Helenio Herrera, altro che carasucia, Antonio Valentin Angelillo “era un dios de la pelota” (Gianni Brera). E pazienza se qualcuno non se n’è accorto.
Credits
Foto Sivori-Angelillo ©AP/LaPresse
Foto Inter 1957/58 ©Wikipedia
Foto Angelillo alla Roma ©ASRoma.com