Il Barcellona e il paradosso dell’indipendenza catalana

Fa sempre specie tirare in ballo l’identità – che viene dal latino idem e ha la stessa radice etimologica di identico – quando si parla di nazionalismi e movimenti separatisti, la cui interpretazione del concetto ha molto più a che fare con il sentimento di diversità che con quello di somiglianza. Il discorso vale ovviamente anche per il catalanismo e per il barcelonismo, che fin dal marketing degli slogan (rispettivamente “Catalunya is not Spain” e “Més que un club”) propongono una modalità di appartenenza basata soprattutto sul sentimento di alterità rispetto alla Spagna e al Real Madrid.

Tutto ciò fondendosi in un’ideologia unica che tiene insieme l’anima repubblicana e il tiqui-taca, l’anticapitalismo della CUP (la formazione separatista di estrema sinistra) e i 75 milioni di stipendio annuale a Messi, la vocazione cosmopolita di Barcellona e i fischi all’inno nazionale durante le finali di Coppa del Re (in uno stadio – il Camp Nou – che peraltro non ospita una partita ufficiale della Roja dal 1987).
Del resto, per la maggior parte dei fan blaugrana, il tifo per il Barça e quello per la Catalunya sono di fatto la stessa cosa, e andare allo stadio a vedere Iniesta rappresenta per loro un atto politico non meno significativo dell’esercizio del diritto di voto o della partecipazione alla Diada, la festa dell’orgoglio catalano.

E tuttavia questa saldatura storica tra catalanismo e barcelonismo è giunta a un punto della storia in cui una delle due istanze rischia di dover sacrificare parte di sé per non danneggiare gli interessi dell’altra.

Se la Catalogna dovesse arrivare a proclamare l’indipendenza, il Barcellona sarebbe infatti quasi certamente costretto a ridimensionarsi, rinunciando a partecipare alla Liga, ai soldi degli sponsor, al posto assicurato in Champions League, alla sua dimensione globale, al suo appeal e, in ultima battuta, anche ai suoi migliori giocatori. Non a caso, nell’ultimo aggiornamento contrattuale (quello dei 75 milioni annui) Messi avrebbe preteso di inserire una clausola che gli consentirebbe di abbandonare la nave in caso di secessione catalana: una cautela sacrosanta, di fronte al rischio di trovarsi, nel giro di un paio di stagioni, a esibirsi di fronte a platee di poche migliaia di spettatori in polverosi campi di provincia.
E a quanto pare, secondo la stampa catalana, la stessa clausola comparirà in tutti i prossimi rinnovi: non tanto perché la circostanza sia data per probabile, quanto per farsi trovare preparati in caso di improvvisi colpi di scena.

Dopodiché, allo stato attuale, si dà per certo che tutto questo non accadrà: perché la maggioranza indipendentista continua a essere risicatissima, perché non lo vogliono le principali forze economiche della regione, e perché se invece accadesse sarebbe difficilissimo spiegare al popolo culé che il prezzo da pagare per la Catalogna indipendente è il sacrificio dell’istituzione che più di tutte, da un secolo a questa parte, ha lavorato per la causa.
Lo capiranno, forse, anche Guardiola, Xavi e Piqué, che in questi anni si sono spesi in prima persona per l’autonomismo, attirandosi – soprattutto Piqué – l’ostilità opposta e simmetrica degli unionisti. Dopotutto, se il Barcellona finisse confinato in un campionato minore, verrebbe meno anche l’argine storico, politico e culturale contro lo strapotere del Real Madrid, che vincerebbe per abbandono dell’avversario l’ultima e decisiva battaglia per l’egemonia calcistica nella Penisola Iberica.

E questa è una prospettiva che nessun barcelonista (e nessun catalanista) può accettare di buon grado senza sentire una fitta nell’orgoglio.

 

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Foto di copertina e nel testo ©LaPresse