Identità ebraica e calcio: la storia del Maccabi Berlino

Siamo fieri delle nostre radici e della nostra identità. Siamo qui a dimostrare che può esistere un club dalle radici ebraiche nella Germania multietnica.

Così Mike Samuel Delberg, 28 anni, racconta l’essenza del Maccabi Berlino, la società polisportiva di cui è uno dei dirigenti. Abbiamo circa 500 membri divisi in otto sezioni, dagli scacchi alla pallavolo – spiega il berlinese originario del quartiere di Tiergarten – con 150-200 tra ragazzi e ragazze che giocano a calcio”.
Dieci formazioni, di cui una femminile, che vanno dagli E-Junioren (nel 2017/18 i bambini nati nel 2007 e 2008) fino alla prima squadra, che milita in Berlin-Liga, la massima serie del calcio cittadino, la sesta della piramide calcistica tedesca. Una formazione che, come tutte quelle che competono per il Maccabi, porta la stella di Davide sulle maglie azzurre. Per noi non è un logo – spiega Delberg, anche rappresentante della comunità ebraica presso l’amministrazione di Berlino – è un simbolo. Vogliamo far vedere che gli ebrei possono fare sport e giocare a calcio, ricordando che in un periodo a loro in Germania non è stato permesso. E la cosa più significativa – prosegue il giovane, impegnato in politica con la CDU, il partito di Angela Merkel – è che quando veniamo attaccati (nel 2006 un episodio di antisemitismo in un match contro il VSG Altglienicke ebbe vasta risonanza sui media tedeschi, ndr) anche i giocatori e dirigenti non ebrei fanno sentire la loro voce a favore del Maccabi”.

Il club che ha la sede nel quartiere di Schöneberg, in Passauer Straße, dove nel 1905 fu costruita una sinagoga poi danneggiata gravemente nel 1938 durante la Notte dei Cristalli, è infatti aperto a tutti. E per capirlo basta dare un’occhiata all’organico della prima squadra che naviga a metà classifica nella Berlin-Liga e gioca i suoi match casalinghi nella zona di Charlottenburg, nell’impianto dedicato dal 2007 a Julius Hirsch, stella della Nazionale olimpica tedesca a Stoccolma 1912 e morto ad Auschwitz, a cui la federazione ha anche intitolato il premio per chi in Germania si batte contro il razzismo e l’intolleranza. Nel Maccabi, guidato in panchina da Frank Diekmann e da Ousmane Bangoura, ci sono giocatori musulmani provenienti dall’Africa (in passato qui ha giocato George Boateng, il fratello maggiore di Kevin-Prince e Jérôme), calciatori originari dell’Europa dell’Est di religione cristiana-ortodossa, cattolici, luterani, ebrei.

Non c’è modo migliore dello sport e del calcio per unire le persone. Qui ci sono giocatori che si sono conosciuti e sono diventati amici solo grazie al pallone,

spiega Delberg.

Una vocazione all’apertura, non perdendo mai di vista le radici ebraiche che il Maccabi – tra il 1982 e il 1986 arrivato fino alla Oberliga Berlin, la terza serie del calcio dell’allora Germania Ovest, e inserito in un campionato in cui, accanto a nobili decadute come il Tasmania Berlino, giocano formazioni nate in seno alle varie comunità migranti della Capitale (SD Croatia, Al Dersimspor, Türkspor Berlin) – coltiva anche nel presente, in nome della lotta contro ogni razzismo, in campo e fuori.

Siamo stati uno dei primi club in Germania a formare una squadra di rifugiati. E il prossimo 27 gennaio nella Giornata della Memoria alcuni dei nostri ragazzi sfideranno, con altri giocatori dell’organizzazione Maccabi, un undici formato da richiedenti asilo.

Un club con identità ebraica e anima multiculturale, che è nato nel 1970 nella Berlino Ovest divisa dal Muro e che si considera erede del Bar Kochba Berlin, la prima società sportiva fondata da israeliti in Germania nel 1898.
“Alla fine dell’Ottocento, in Europa e nell’Impero tedesco – spiega Daniel Wildmann, Senior lecturer in Storia alla Queen Mary University of London e direttore del Leo Baeck Institute di Londra – proliferavano le teorie razziste basate su osservazioni e misurazioni pseudoscientifiche del corpo in cui gli ebrei erano dipinti come deboli e inferiori. In questo contesto anche gli intellettuali di estrazione ebraica (come Max Nordau, non a caso un medico, ndr) posero davvero l’attenzione sul corpo e sulla sua cura”. Un fisico che andava “coltivato” attraverso lo sport per formare quelli che lo stesso Nordau, collaboratore e concittadino di Theodor Herzl, il fondatore del sionismo, chiamò i Muskeljuden, gli ebrei muscolari. “Si partì dalla ginnastica allora molto popolare in Germania – prosegue Wildmann – per poi allargarsi ad altre attività come l’atletica e il calcio”.

Sport che per essere praticati necessitavano di spazi e organizzazioni, come il Bar Kochba Berlin, dal nome del condottiero che nel II secolo d.C. si batté contro i romani nella terza guerra giudaica. “In Germania a fine Ottocento per gli ebrei, a meno che un club avesse tra gli animatori qualche israelita – racconta Wildmann –, era difficile entrare a farne parte. Così nell’Impero nacquero società e sodalizi prettamente ebraici.
Una situazione che di fatto non cambiò di molto neppure con la Repubblica di Weimar, nata dopo la Prima Guerra Mondiale. “In quella Germania – racconta lo storico originario di Zurigo – gli ebrei che facevano sport avevano due possibilità: entrare in club che dimostravano, come il Bayern Monaco, di essere aperti agli israeliti o praticare le attività in un club ebraico”. In quel periodo il Bar Kochba Berlin contava 24 sezioni e atleti di 40 paesi. Per loro c’era l’orgoglio – dice Wildmann – di far vedere di poter competere mostrando di poter essere ebrei e atleti”.

L’avvento del nazionalsocialismo, l’esclusione dello sport per gli israeliti e la loro persecuzione prima in Germania e poi in tutta Europa cambiò tutto.

Alcune delle società che hanno fatto la Storia del calcio con la Stella di Davide e non solo, come la Hakoah Vienna, una delle formazioni più forti degli anni Venti e primo campione d’Austria dell’era professionistica nel 1925, o il VAC Budapest (ora Maccabi VAC Hungary), sono ancora vive come polisportive ma non hanno più una sezione calcistica.

Altre, come per esempio la Hasmonea Lwów in Polonia o il Maccabi Bucarest (con il suo portiere Samuel Zauber fu il primo club ebraico a mandare un giocatore al Mondiale, quello del 1930) o il Makkabi Brno, dove militarono anche il futuro grande allenatore Árpád Weisz e Ferenc Hirzer, si sono dissolte completamente in periodi diversi. E poi c’è chi è sopravvissuto. In tutti i sensi. È il caso della FC Hakoah di Zurigo, nata nel 1921, del Maccabi Hakoah Sydney City East FC, creato nel 1939 da un gruppo di emigrati di origine ebraica in Australia, e del New York Hakoah, rinato per l’ultima volta nel 2009, dopo aver fatto parte negli anni Venti dell’élite del calcio a stelle e strisce grazie all’apporto di molti giocatori, ebrei e non, provenienti dall’Europa Centrale, tra cui l’ungherese Béla Guttmann. Club che scompaiono, risorgono e che si fondono, come il Maccabi Paris. La sua squadra A nel 2012 è andata a formare insieme all’UJA Altfortville, società legata alla numerosa comunità armena della capitale francese, l’UJA Maccabi Paris Métropole, oggi in Regional 1, l’equivalente della Promozione italiana.

Tante storie, tanti percorsi, ma un denominatore comune: l’essere lontano dai piani alti del calcio.

Non un problema. Almeno a Berlino. “Fare bene sul campo è importante – conclude Mike Delberg – ma noi siamo soprattutto un club che ha lo scopo di unire tutte le persone attraverso lo sport, avendo sempre presente la nostra identità”.

Credits

Foto di copertina © Rolf Walter/Jüdische Allgemeine
Foto stemma Maccabi Berlino ©Tagesspiel
Foto squadra Maccabi Berlino 2017/2018 ©JouLux Stefan E. Hass/TuS Makkabi Berlin
Foto Bar Kochba Berlin ©Herbert Sonnenfeld
Foto Hakoah Wien ©WorldSoccer